COVID E DISTURBI DELL’ADATTAMENTO: QUALI RISCHI CORRONO I GIOVANI OGGI?
/0 Commenti/in Psicologa /da FedericaE’ evidente come l’attuale situazione di emergenza sanitaria stia mettendo sempre più crisi il Sistema Sanitario Nazionale, le Istituzioni, la scuola, le famiglie, i singoli individui. In particolare, questo evento critico ha creato una situazione di elevata reattività emotiva, fisiologica e comportamentale negli adolescenti e giovani adulti, sia in termini di impulsività/agitazione che di ritiro/appiattimento affettivo. Emerge come situazioni di uno o più eventi stressanti come quelli vissuti fin’ora dai ragazzi possano causare l’insorgenza di sintomi o comportamenti disfunzionali.
In particolare, la presenza di sintomi emotivi e comportamentali in risposta a un evento stressante, identificabile come il fenomeno della pandemia, potrebbe rientrare nei disturbi dell’adattamento.
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5, 2014) parla di disturbo dell’adattamento definendolo come un quadro caratterizzato da sintomi emotivi e psicofisici, connotato da una marcata sofferenza che si può manifestare con stati d’ansia, umore depresso ed alterazione della condotta, compromettendo in maniera significativa il normale funzionamento della persona in ambito sociale, lavorativo, scolastico e familiare.
Il perpetrarsi di uno stress psicofisico di tale portata potrebbe favorire, inoltre, lo sviluppo di ulteriori quadri psicopatologici quali disturbi d’ansia, disturbi alimentari o disturbi dell’umore, fino ad aumentare potenzialmente il rischio di sviluppare autolesionismo e/o tendenze suicidarie.
In accordo con ciò, l’Istituto Superiore di Sanità (2020) afferma infatti che negli eventi epidemici, come quello in corso, esiste un rischio elevato di sviluppare ansia, panico, depressione, comportamenti auto ed etero-aggressivi. Tali problematiche si associano, poi, ad un maggior rischio di abuso di alcool e sostanze, maltrattamenti intrafamiliari, aumentando inoltre altri fattori di rischio psicosociale come disoccupazione, abbandono scolastico e rottura delle relazioni.
Quindi, in queste situazioni si osserva un vero e proprio stravolgimento dell’assetto mentale, emotivo e affettivo con importanti conseguenze sul piano della condotta comportamentale generale, oltre che quella scolastica, universitaria e lavorativa.
In breve, il Covid-19 sta mettendo in crisi l’intera popolazione e sta colpendo in modo severo i giovani ed il loro percorso di crescita. I ragazzi, impegnati nel duro lavoro di definizione e affermazione del loro ruolo e della loro identità sociale e di genere, oggi guardano ad un futuro che appare sempre più incerto, spaventoso, se non angosciante, oltre che pieno di dubbi e interrogativi.
Gli affetti, i rapporti sociali e la quotidianità sono in crisi in partenza, per questo motivo, si crea nei giovani di oggi una situazione di forte vulnerabilità psicologica e di incertezza, accompagnate da impotenza e senso di frustrazione diffusi, che potrebbero, a lungo termine, influenzare negativamente, o persino bloccare, la strada che porta al raggiungimento dell’età adulta, fino alla sua completa realizzazione.
Che cosa può fare la figura dello psicologo in questi casi?
In primo luogo, lo psicologo può offrire uno spazio sicuro per un ascolto empatico, accogliente e non giudicante di counseling specialistico, offrendo la possibilità di una consulenza come momento di incontro e di dialogo rivolto a chiunque stia vivendo un momento di disagio o crisi personale.
Quindi, lo psicologo è un professionista che aiuta il suo interlocutore di qualsiasi genere ed età a capire quale sia l’eventuale percorso da intraprendere per ritrovare il proprio benessere ed affrontare in modo costruttivo e con strumenti efficaci l’ansia, la paura, la desolazione o la rabbia connesse a questo momento di emergenza. In quest’ottica, si promuovono lo sviluppo e l’incremento delle abilità del singolo nel fronteggiare situazioni difficili, al fine di prevenire l’insorgenza di un sintomo, un disturbo o un disagio psicologico e/o sociale invalidanti.
Bibliografia
AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione. Milano. Raffaello Cortina Editore.
ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA’ (2020). Indicazioni di un programma di intervento dei Dipartimenti di Salute Mentale per la gestione dell’impatto dell’epidemia COVID-19 sulla salute mentale. Versione del 6 maggio 2020. Gruppo di lavoro ISS Salute mentale ed emergenza COVID-19 2020, iv, 23 p. Rapporto ISS COVID-19 n. 23/2020
IL TRAINING AUTOGENO PER LA GESTIONE DELL’ANSIA E DELLO STRESS
/0 Commenti/in Psicologa /da FedericaIl training autogeno è un efficace e largamente diffuso strumento che permette all’individuo di recuperare e di mantenere la propria condizione di equilibrio sul piano psico-somatico mediante un vero e proprio allenamento (appunto, training) che prevede la pratica costante di tecniche ed esercizi specifici. L’elemento unità psiche-soma è dunque il concetto centrale su cui si fonda l’intera teoria e la tecnica del TA e risulta essere, in primis, il filo conduttore del cospicuo lavoro svolto da Iohannes Heinrich Schultz (1984-1970), l’ideatore di tale metodologia. Schultz definì il training autogeno, in termini di unità psiche-soma, come un “metodo di auto distensione da concentrazione psichica”, indicando come fosse possibile per la persona recuperare una condizione di equilibrio e di benessere sia sul piano fisico che su quello mentale. L’interesse di Schultz per la cura e la ricerca del benessere dell’individuo lo portò a cercare nuovi metodi per promuovere uno sviluppo equilibrato della persona. Schultz, oltre a lavorare come medico, si unì in un primo momento al movimento psicoanalitico, assimilando i concetti basilari della teoria freudiana, come la rimozione, la resistenza e lo sblocco dell’inconscio. In seguito si interessò alla medicina psicosomatica e approfondì le conoscenze in merito gli effetti sui pazienti che venivano trattati con l’ipnosi. L’autore, infatti, rimase colpito dalla tecnica dell’ipnosi e in particolare notò come il seguente trattamento portava i pazienti a sperimentare regolarmente uno stato di commutazione, ovvero uno stato in cui i pazienti provavano una piacevole sensazione di pesantezza e di calore dovuta al rilassamento. L’ipnosi, tuttavia, riportava dei limiti, in quanto di per sé necessita della guida del professionista e della passività del paziente per essere applicata. Schultz entrò a contatto con gli studi sull’ipnosi di Vogt, il quale aveva osservato che alcuni soggetti erano capaci di raggiungere da soli lo stato di ipnosi attraverso una commutazione completa. Schultz, allora, cominciò ad ipotizzare che i pazienti potessero imparare a compiere in modo autonomo i cosiddetti “stati di commutazione”, senza l’ausilio del terapeuta.
La tecnica del training autogeno. Inizialmente Schultz formulò la tecnica del TA secondo obiettivi terapeutici, ovvero con lo scopo di intervenire nei disturbi psicosomatici e nelle nevrosi; in seguito l’autore stesso osservò quanto fossero numerosi gli ambiti in cui tali tecniche potevano essere applicate in modo efficace, ad esempio il contesto educativo, sportivo e quello consulenziale. In primo luogo occorre definire le condizioni preliminari del training autogeno: Schultz consiglia di eseguire gli esercizi in un ambiente tranquillo, silenzioso e scarsamente illuminato; la temperatura esterna non deve essere né troppo calda né troppo fredda. Successivamente è necessario individuare la postura da utilizzare durante il training (a cocchiere, supino o in poltrona) la quale può variare a seconda delle necessità personali e dell’ambiente in cui ci si trova. L’abbigliamento deve essere comodo per poter facilitare il rilassamento muscolare, mentre per quanto riguarda l’atteggiamento mentale, l’autore osservava come fosse essenziale che la persona iniziasse l’allenamento senza aspettative, ovvero con la mente il più possibile libera. Il training autogeno, per definizione, prevede che la persona svolga un allenamento costante (almeno 2/3 volte al giorno) per poter dare dei benefici concreti. Schultz ha distinto gli esercizi del training autogeno in due tipologie: gli esercizi inferiori o somatici del TA di base e gli esercizi superiori (TA superiore, livello psichico).
Il TA di base prevede 6 esercizi: la “pesantezza” (distensione muscolare), il “calore” (distensione vascolare), il “cuore” (regolarizzazione battito cardiaco), il “respiro” (regolarizzazione respiratoria), il “plesso solare” (rilassamento viscerale) e la “fronte fresca” (vasodilatazione frontale tramite azione congestionante). Ogni volta che si dà inizio ad una sessione di training è di fondamentale importanza richiamare “l’induzione alla calma”, intesa come quella condizione fondamentale per entrare in uno stato di rilassamento, avere la mente libera ed ascoltare le proprie sensazioni interne. Attraverso questa sequenza la persona ha modo di sperimentare la riduzione del proprio stato di ansia e di tensione, in un primo momento in modo consapevole (con le formule che suggeriscono un rilassamento muscolare e una regolazione del battito cardiaco e del respiro), in seguito a livello inconscio. Al termine degli esercizi per favorire lo stato di rilassamento, dunque una buona ripresa, è necessario non attuare movimenti bruschi, bensì movimenti lenti come respirazioni diaframmatiche profonde, flessione degli arti ed, infine, apertura degli occhi.
I concetti teorici e filosofici alla base del Training Autogeno
La bionomia. Schultz definì la bionomia come “l’ordine complesso di leggi della vita”, ovvero quell’insieme di leggi del corpo (processi biologici) e della mente (processi psichici) che regolano il funzionamento di un essere vivente. Dunque, esiste la naturale tendenza di un organismo di possedere un equilibrio dinamico e regolarizzarsi in modo autonomo durante l’intero arco di vita. Talvolta, il percorso vitale dell’individuo non procede bionomicamente e in questi casi il TA si propone come uno strumento utile a favorire un riequilibrio attraverso un trattamento
mediante l’uso delle tecniche autogene che hanno come obiettivo, appunto, la ripresa della condizione bionomica.
L’autogenia. Schultz riconosce il metodo autogeno come necessario per facilitare la bionomia vitale della persona e renderla, in questo modo, libera di percorrere il suo naturale sviluppo. L’autogenia prevede: l’acquisizione di un atteggiamento passivo di ascolto di sé in uno stato di rilassamento, di distensione e di calma, l’accettazione passiva di ciò che emerge spontaneamente, il “lasciare che accada”, ovvero lasciare che il proprio corpo si assesti e si regolarizzi in modo autonomo. L’esperienza dell’autogenia può a volte dare origine a sensazioni fastidiose o spiacevoli come reazioni motorie, cinestetiche, visive definite “scariche autogene”. È necessario che la persona impari ad ascoltare e prendere consapevolezza di tutte le sensazioni somatiche e psichiche in modo tale da raggiungere più facilmente uno stato di equilibrio e di armonia. Il metodo autogeno, dunque, ha come obiettivo promuovere nell’individuo la capacità di condurre autonomamente la propria esistenza, avendo imparato ad entrare in contatto ed ascoltare i propri vissuti interiori.
Bibliografia
BARUZZO R., Equilibrio personale e training autogeno, Padova, libreriauniversitaria.it edizioni, 2014.
LINDEMANN H., Training autogeno, Milano, Tecniche Nuove, 2003.
SCHULTZ I. H., Il training autogeno. Metodo di auto distensione da concentrazione psichica, 2 voll., Milano, Feltrinelli, 1968.
SCHULTZ I. H., Psicoterapia bionomica. Un espertimento fondamentale, Milano, Masson, 2001.
LA PERSONALITA’ NARCISISTICA
/0 Commenti/in Psicologa /da Federica“Sono sceso dalla mia torre d’avorio,
E non ho trovato alcun mondo”
J. KEROUAC
Il narcisismo da sempre suscita grande interesse nel campo della salute mentale e i disagi connessi a questa tipologia di carattere sono sempre più osservabili, frequenti e limitanti la vita della persona.
Sebbene la figura del narcisista sia classicamente rappresentata nella sua modalità grandiosa, affascinante, vanitosa e autoreferenziale, oggi capita sempre più che i narcisisti siano invece profondamente infelici e insicuri circa la propria immagine di sé e la possibilità di essere amati e di amare. I narcisisti di oggi sono sempre più disorientati perché non sanno cosa vogliono e cosa cercare, sono maggiormente bisognosi di conferme da parte degli altri rispetto la loro eccezionalità e indispensabilità, ma sono anche più sofferenti per il vuoto che tale ricerca comporta, oltre che stremati per il loro continuo nascondere i propri limiti e imperfezioni, costruendo per sé corazze d’acciaio sempre più forti, elusive e a prova di assenza di like o di commenti negativi sui social.
Si può affermare che oggi siamo nella cultura del narcisismo e nell’epoca delle personalità liquide, in cui “ non è tanto importante come ti senti, ma è come appari” (Billy Crystal). Infatti, il narcisismo riguarda Fondamentalmente l’insieme delle difficoltà del nostro modo di vedere noi stessi e gli altri e di relazionarci, in altre parole ha a che fare con i problemi di mancanza di autostima e di difficoltà di autoregolazione all’interno delle relazioni interpersonali.
Come si può immaginare, il disturbo narcisistico di personalità è complesso a causa delle molteplici sfaccettature risulta per questo motivo difficile da analizzare dal punto di vista clinico.
Ma cos’è che rende il narcisismo un disturbo di personalità?
Qui entra in gioco un’importante distinzione tra ciò che è stile narcisistico e ciò che è disturbo di personalità, ovvero tra ciò che descrive la normale ed adattiva modalità di funzionamento di quella persona che ha un carattere narcisista e quegli aspetti della personalità che sono invece estremamenti rigidi, pervasivi e disfunzionali e che generano sofferenza.
Il presupposto di base è che avere un carattere narcisistico non vuol dire essere sbagliati, nè tanto meno avere automaticamente una patologia della personalità.
Ci sono diversi individui con uno stile narcisistico di personalità che sono persone di successo, affascinanti, energiche e affabili, che possiedono un’acuta consapevolezza dei propri pensieri e sentimenti, riuscendo ad avere una qualche consapevolezza anche di quella degli altri. Sebbene siano più sensibili ed emotivamente vulnerabili alle critiche di altri, questi individui sono comunque in grado di gestire i sentimenti negativi in modo adeguato. Sono persone competitive ed ambiziose che credono nelle proprie abilità raggiungendo i propri obiettivi, ma che non chiedono agli altri trattamenti speciali o privilegi.
Quand’è che invece si parla di disturbo narcisistico di personalità?
Non esiste un chiaro consenso all’interno della comunità scientifica sulla natura del disturbo narcisistico e sulla diagnosi. Nel campo della salute mentale, sono riconosciuti dei criteri diagnostici che seppur utili, descrivono solo la parte grandiosa, manipolativa, arrogante e insensibile del narcisismo patologico, rischiando di creare una definizione un po’ troppo semplificata di tale dimensione di personalità.
Negli anni, sono state riscontrate delle sfumature più velate del narcisismo che hanno messo in evidenza come esistano più sottotipi di narcisisti. Alcuni individui, infatti, sono estremamente vulnerabili, ipervigili e preoccupati del comportamento dell’altro perché avvertono sempre un giudizio nelle parole dell’altro, o motivo di offesa/ferita narcisistica. Nonostante evitino le relazioni ed il confronto, sono silenziosamente sprezzanti e critici l’altro, per cui dietro la loro maschera e sotto la loro vergogna, vi è un’immagine di sé idealizzata. Alcuni soggetti possono avere esplosioni emotive quando si sentono feriti, oppure possono isolarsi e mostrarsi indifferenti, perché sensibili alla critica.
Di seguito, è riportata una sintesi delle principali caratteristiche del narcisismo che riguardano per lo più quegli aspetti che sono osservabili nel modo in cui la persona narcisista tende a interagire con sé e con gli altri. Essi sono:
- la difficoltà/incapacità di amare e mantenere nel tempo una relazione amorosa stabile;
- la costante ricerca di approvazione, rispetto e ammirazione da parte dell’altro;
- il considerarsi delle persone meritevoli e aventi diritto di particolari privilegi, oppure vittime martirizzate di maltrattamenti altrui;
- L’iniziale seduttività, seguita da perdita di interesse verso l’altro e noia nei contesti relazionali;
- Falsità, disonestà utilizzate per conquistare l’altro attraverso l’inganno o l’esagerazione di fatti che non rispecchiano la realtà;
- Il ritiro dalle interazioni sociali per paura delle critiche e per proteggersi da eventuali umiliazioni;
- il rifiuto della dipendenza e l’incapacità di accettare l’aiuto dell’altro;
- la negazione dell’autonomia dell’altra persona che ha come scopo la sottomissione e il controllo;
- la negazione della propria sofferenza o del conflitto associato ad una specifica situazione dolorosa;
- il confronto continuo con gli altri, alimentato dall’invidia associato ad una scarsa, se non assente, empatia verso l’altro e i suoi bisogni.
- l’idealizzazione dell’altro, che porta a mettere su un piedistallo la persona particolarmente ammirata per rispecchiarsi e ricevere gratificazioni, elogi e conferme;
- l’invadenza e l’esibizionismo che svalutano i bisogni altrui, portando il narcisista a concentrarsi su di sé e solo su ciò che è importante per lui.
Numerose sono le formulazioni teoriche rispetto l’eziologia del disturbo narcisistico di personalità, da quella psicoanalitica freudiana, a quelle cognitivo-comportamentali o biosociali, tuttavia una concettualizzazione più integrata sembra essere maggiormente utile a comprendere la natura problematica di tale disturbo. A livello biologico, i soggetti con questo disturbo di personalità tendono ad avere un temperamento reattivo agli stimoli. Da bambini sono stati considerati per il loro essere speciali, nel loro talento in qualche particolare attività o per altre abilità personali come l’intuizione, l’intelligenza o eccezionali capacità linguistiche. Dal punto di vista psicologico invece, questi soggetti hanno sviluppato la loro visione di sè, degli altri e del mondo su alcuni temi fondamentali: essere speciali e meritevoli di diritti a prescindere dal proprio comportamento; la sopravvalutazione parentale, ovvero il corrispondere a delle aspettative genitoriali di perfezione e di successo per cui il figlio è un riflesso dei genitori e viene visto per come essi desiderano che sia e non per quello che è; la cronica invidia connessa a profondi sentimenti di inferiorità; l’incapacità dei genitori di rispondere ai bisogni del bambino con empatia e riconoscimento delle loro emozioni, non essendo stati a loro volta accolti nei loro bisogni narcisistici in infanzia.
Le persone con disturbo narcisistico di personalità – che hanno quindi un deficit di autostima, sono eccessivamente egocentriche e gestiscono le proprie insicurezze tramite la costruzione di un’immagine di sé arrogante, autoriferita, grandiosa, ma che hanno grandi difficoltà relazionali perché sono spesso allontanate, criticate o abbandonate da coloro che inizialmente erano idealizzati che poi vengono tutto d’un tratto svalutati e/o sfruttati, maltrattati – soffrono. Anche se in modo quasi impercettibile, perché sono prigionieri di un copione di vita costruito tassello dopo tassello sin dall’infanzia su un modo di essere limitante e non funzionale.
La psicoterapia è il trattamento d’eccellenza e maggiormente diffuso per tale tipologia di problematica. La psicoterapia psicodinamica integrata è un tipo di trattamento che mette insieme più metodologie e strategie di intervento e che permette di lavorare sulla vulnerabilità narcisistica a livello comportamentale, cognitivo, emotivo e relazionale, all’interno di una relazione terapeutica fondata sulla costruzione e sul mantenimento di un’alleanza terapeutica efficace.
Bibliografia
AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione. Milano. Raffaello Cortina Editore.
GABBARD, G.O., CRISP H. (2018). Il disagio del narcisismo. Milano. Raffaello Cortina Editore.
GABBARD, G.O. (1989). “Two subtypes of narcissistic personality disoder”. In Bull Menninger Clin, 53 (6), pp. 527-532.
LA PERSONALITA’: STILE O DISTURBO?
/0 Commenti/in Psicologa /da FedericaDal punto di vista scientifico la personalità può essere definita come l’insieme delle caratteristiche psicologiche e delle modalità comportamentali che descrivono le differenze individuali all’interno dei molteplici contesti di vita in cui l’essere umano è presente.
Gli studi in campo neurobiologico e biopsicosociale (Millon e Davis, 2000; Cloninger et al. 1993) hanno portato a una grande quantità di ricerche sulla personalità che hanno permesso di fare alcune importanti riflessioni e ipotizzare che lo sviluppo e il funzionamento della personalità siano principalmente influenzati dagli aspetti biologici e da quelli socio-culturali. In questo senso, la personalità sembra essere la sintesi delle dimensioni correlate:
- al carattere (gli aspetti sociali, il patrimonio culturale appreso dall’infanzia);
- al temperamento (le componenti genetiche e biologiche che sono costitutive della personalità);
- alle prime esperienze di vita (tipologia delle cure primarie da parte dei genitori, traumi precoci);
- all’attaccamento primario (il legame che si sviluppa a partire dalle primissime interazioni tra il bambino e le figure di riferimento, che crea dei modelli relazionali di base che influenzano l’esperienza di sé e dell’altro nelle relazioni interpersonali).
Quindi, l’insieme dei fattori genetici, sociali, culturali e le diverse esperienze di vita di ogni individuo porta allo sviluppo di una personalità caratterizzata da specifici modi di pensare, sentire e comportarsi in relazione a sé, gli altri e il mondo.
La ricerca, inoltre, ha portato nel tempo alla definizione di alcune categorie di personalità che descrivono un determinato stile, ovvero la disposizione di base che rende conto della condotta di una persona.
In altre parole, per stile di personalità si intende il comportamento adattivo di un particolare tipo di personalità osservabile nel suo modo di pensare, provare emozioni, relazionarsi con gli altri e la realtà circostante, quindi che descrive la normale modalità di funzionamento di un individuo. Ad esempio, c’è chi ha tratti di personalità ossessiva, per cui è una persona coscienziosa, tendenzialmente rigida nei compiti e più attenta ai dettagli, ma che sa portare a termine i propri obiettivi e vivere le relazioni con un discreto coinvolgimento emotivo. Oppure, c’è chi ha un carattere più istrionico, quindi è una persona più impulsiva e bisognosa di attenzioni, ma che riesce ad essere emotivamente equilibrata nelle relazioni, mostrandosi altruista e generosa.
Quando determinate caratteristiche di personalità diventano eccessivamente rigide, limitanti, disfunzionali e perdurano aggravandosi nel tempo, allora si parla di disturbo di personalità. Tale condizione negli anni rischia altamente di creare una profonda sofferenza soggettiva e/o altrui, all’interno delle relazioni interpersonali che risultano spesso insoddisfacenti, vuote, maltrattanti o dolorose.
In generale, per disturbo di personalità (DSM 5, 2014) si intende quindi un pattern abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo e che si può manifestare a livello:
- cognitivo: i pensieri, cioè i modi di percepire e interpretare se stessi, gli altri e gli avvenimenti;
- affettivo: i sentimenti, le emozioni e gli affetti, cioè la varietà dell’intensità e dell’adeguatezza della risposta emotiva ad un determinato stimolo e/o contesto;
- del funzionamento interpersonale: la modalità di interazione con l’altro e la qualità dei legami;
- della capacità di controllo degli impulsi (rabbia, aggressività, ecc.).
Spesso, gli individui con problematiche di personalità non sono del tutto consapevoli del loro disagio e questo è dovuto anche alla mancanza nella cultura odierna di informazioni adeguate e utili a comprendere le dinamiche del funzionamento psicologico. In molti casi, sono gli stessi familiari, partner o amici a evidenziare uno o più problemi circa il comportamento dell’altro e spesso tali rimandi se sono dati fuori da un contesto rispettoso, comprensivo e non giudicante, generano nella persona che li riceve sensazioni di offesa, rabbia, vergogna e umiliazione profonda, sentendosi bollata come un essere spregevole o “pazzo/a”.
Tuttavia, un ulteriore aspetto da considerare che si ritrova soprattutto nella sfera delle relazioni interpersonali è la motivazione al cambiamento di sé e le aspettative che una persona sviluppa verso il cambiamento desiderato dell’altro. Migliorare se stessi, sviluppare nuovi atteggiamenti più propositivi e efficaci o sperare che l’altro cambi e che i suoi difetti si affievoliscano nel tempo, sono temi assai comuni che caratterizzano la maggior parte delle relazioni affettive. Le persone con problemi di personalità che hanno quindi delle rigidità e delle grandi difficoltà relazionali sono spesso poco motivate a cambiare ed è estremamente difficile per loro farlo, nonostante la sofferenza che provano, proprio perché modificare le abitudini e i comportamenti che definiscono da un’intera vita il loro modo di essere è un’operazione complessa e delicata, che richiede tempo e pazienza.
Per questo motivo, la psicoterapia risulta essere il trattamento maggiormente efficace a lungo termine per tale tipologia di problematica, perché permette di lavorare assieme ad un professionista della psiche all’interno di una relazione terapeutica per modificare quei modi di essere disadattivi che si sono sviluppati fin dall’infanzia, elaborati poi nel corso della vita, che creano sofferenza, interferendo con il raggiungimento degli obiettivi e dei propri desideri.
Bibliografia
AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione. Milano. Raffaello Cortina Editore.
CLONINGER, C.R., SVRAKIC, D.M., PRZYBECK, T.R. (1993), “A psychobiological model of temperament and character”. In Archives of General Psychiatry, 50, 12, pp. 975-990.
MILLON, T., DAVIS, R. (2000). Personality Disorders in Modern Life. John Wiley & Sons, Inc., New York.
SPERRY, L. (2003). I disturbi di personalità. Dalla diagnosi alla terapia. Seconda edizione. Edizione italiana a cura di Sica, C.Milano. McGraw-Hill.